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Per una filosofia degli intenti: l’albero dei bagliori e il tempo

 

 

Sai ancora che ho cantato?

Questa –

Oh questa deriva.

 

Mai-più. A valle del mondo.

Non ho cantato. Aperta giacevi

davanti alla mia anima in viaggio.

 

Sono gli ultimi versi della poesia Flimmerbaum di Paul Celan ad aver pervaso sin dall’inizio, il viaggio dell’anima, l’ispirazione e gli intenti dell’associazione culturale L’albero dei bagliori.

Un viaggio che pur non esaurendosi nell’intenzione specifica di celebrare uno dei più grandi poeti del Novecento, ha inteso volgersi originariamente ai suoi versi per condividerne profondamente la poetica, laddove essa, attraversando le tenebre del linguaggio della modernità, si configura silenziosamente come messaggio in bottiglia, umile dono “creaturale” che si svela, nella povertà della “mezzanotte del mondo”, come flebile lucore, bagliore a intermittenza che fa breccia nella coltre oscura della chiacchiera, di una “parola vuota” imbrigliata nelle maglie di un tempo vuoto di tempo – la cui corsa si esaurisce nel costante bisogno di fuga del soggetto.

Nello scenario della modernità, la fuga dell’uomo dal tempo ottura l’ascolto della parola, lasciandone affiorare la sua traccia soltanto nel volo ineffabile della sua ombra. Un bagliore inafferrabile, effetto di una ricerca interiore estenuante dove la creatura umana è prigioniera di una parola costantemente in bilico fra il rammendo della ragione e l’esperienza di un fondamento senza più ancoraggi, abisso di un fondo senza fondo. È là, in mezzo a quella faglia che il soggetto della modernità tenta una corsa contro il tempo nel tentativo di eluderne il tragico quale fonte di tormento e di angoscia.

L’atto di sfuggire il tempo ha sempre fatto parte della condizione umana a tal punto da indurre il soggetto alla paradossale ricerca del bisogno contrario: per l’uomo della modernità non c’è mai tempo, nel senso che il tempo non gli basta. Il suo bisogno è ingordo, senza limite, ovvero, bulimico di tempo. L’ingordigia di tempo lo vuole tutto per sé, cercando, in una corsa contro il tempo, di otturare il resto di un vuoto mai colmabile. Pretesa, questa, tanto comune all’uomo, quanto mortifera nel definirne il suo male: l’inguaribile affanno insito nella “fame di tempo”.

Un paradosso, questo, laddove la mancanza – come direbbe Martin Heidegger – non è avvertita nemmeno più come mancanza; ma nell’accanimento costante del riempimento di un vuoto, la “fame di tempo” sopravvive alla rimozione della mancanza come negazione del tempo e dunque, del nulla come morte. L’effetto è quello di un’ipostatizzazione della vita in un lunghissimo e interminabile momento, anestetizzato per così dire, dalla totale assenza di desiderio per la vita stessa. Ne viene che se si rimuove il senso per la morte, non si può più parlare di desiderio. Nell’assenza di desiderio – come direbbe Lacan – l’accesso alla cosa non viene più interdetto e in questo debordare, non è più la parola ad uccidere la cosa ma è la cosa stessa a soffocare la parola. Da qui, la suturazione del tragico, della sua ferita, e la frequentazione di un tempo vuoto da riempire a tutti i costi.

Così, il soggetto della modernità sopravvive ad una sorta di intasamento, nel senso che il suo vivere è intasato di cose e di oggetti come frammenti di reale. Con le parole di Rilke: «Per i nostri avi, una “casa”, una “fontana”, una torre loro familiare, un abito posseduto, il loro mantello, erano ancora qualcosa di infinitamente di più che per noi, di infinitamente più intimo; quasi ogni cosa era un recipiente in cui rintracciavano e conservavano l’umano. Ora ci incalzano dall’America cose vuote ed indifferenti, pseudo-cose, aggeggi per vivere…». Parole illuminanti che sospingono lo sguardo al cielo nel tentativo di riafferrare, anche se solo per un istante, il lucore di una leggerezza perduta al fine di recuperare l’ultimità di un senso, dentro a quel vuoto intasato dal vuoto.

L’atto di alleggerire ”l’intasamento” – proprio alla natura dello “pseudo-oggetto” rilkiano, nel tentativo seppur utopico di stanare la parola dall’uccisione della cosa – caratterizza in questo caso, il proposito principale dell’associazione L’abero dei bagliori il cui intento, lungi dal rischio di apparire pretenzioso, risiede nel disporsi umilmente all’ascolto di un’eco lontana: quella di un messaggio poetico dove l’immagine celaniana del bagliore (Flimmer) costituisce lo spunto dal quale prende avvio il percorso silenzioso di uno svelamento faticoso, strappato alla corsa del tempo, traccia di una parola che desidera fiorire sulle lapidi del cuore, incastonata fra le sue ombre, nell’alternanza fra scena manifesta e scena nascosta, sia essa declinata nel sublime linguaggio della poesia, della musica che in quello dell’ampia rosa delle arti. Con il canto di Celan:

 

 

Tenere in braccio fadensonnen

i tuoi occhi,

arsi e separati,

continuare a cullarti, nel volo

dell’ombra del cuore, cullare te.

 

Dove?

 

Fissa il luogo, fissa la parola.

Spegni. Misura.

 

Chiarore di cenere, gomito di cenere – in-

ghiottita.

 

Misurata, demisurata,

dissaldata, sfaldata

 

sfal

 

Singulto

di cenere,

tenere in braccio

i tuoi occhi,

sempre.

                                                                         

                                                                                                                                                                      Dalla mostra "Fogli in forma di libri e altre Carte

  dedicate a Paul Celan", Courtesy di Giosetta Fioroni